Psicologia e patologia nelle organizzazioni – Parte 3

Alessitimia nella vita organizzativa

Per una persona lavorare può essere molto importante; oltre al corrispettivo in denaro, può essere fondamentale per il riconoscimento sociale, la soddisfazione, il senso di appartenenza, il sentirsi competenti ed utili, per instaurare relazioni interpersonali, per raggiungere il prestigio ecc. Le motivazioni possono quindi essere le più disparate.

In secondo luogo, un’organizzazione può offrire certezze, contenimento, appigli per l’instabilità individuale, può diventare in certe situazioni un rimedio alla noia, alla solitudine e all’incertezza delle persone; tuttavia può anche avere l’effetto contrario, alimentando il senso di inutilità, l’incertezza e la sofferenza dei soggetti.

In quest’ultimo caso agli individui sorgono interrogativi sul “significato di esistere”. Se la persona non riesce ad integrarsi sviluppa, secondo Kets de Vries, un adattamento difettoso al lavoro, assumendo una forma di alienazione. “L’uomo alienato: ammette a se stesso di non provare nulla, di non poter avvicinare le persone, che ogni cosa gli sembra irreale e senza significato, che la vita passa come un film e lui gioca il ruolo dello spettatore disinteressato”.

Nonostante ciò l’individuo assume un comportamento “normale”, struttura il proprio comportamento adeguandosi alle norme esterne, diventando uno “strumento” per l’organizzazione. Kets de Vries chiama questo uomo alienato soggetto “come se”, vede le altre persone come se fosse uno spettatore, è incerto sulla realtà e su ciò che lo circonda, enfatizza e diventa partecipe della finzione.

Partendo dall’individuo come se, l’autore analizza alcune patologie organizzative: l’ALESSITIMIA e la dipendenza dal lavoro. Osservando gli attori organizzativi si può scorgere il soggetto che appare privo di ogni carattere individuale e di ogni qualità soggettiva. Questa persona è “incapace di esprimere sentimenti, di parlare di sé e di instaurare relazioni autentiche con gli altri”.

“…Alla passione e agli affetti preferirà (…) il ricorso all’azione, che scoprirà essere l’unica modalità attraverso la quale poter descrivere quello che sente: eviterà i conflitti, bandirà fantasie, disdegnerà i sentimenti”; “anaffettivo, an-estetico, emozionalmente deprivato, si terrà a debita distanza dal proprio mondo interno, congelerà il dialogo con gli altri, coltiverà l’apparenza”.

Kets de Vries trasferisce così questo profilo che corrisponde al disturbo alessitimico al mondo dell’organizzazione. In questo contesto l’alessitimia si manifesta attraverso l’incapacità di distinguere e differenziare gli affetti, monotonia delle idee, impoverimento dell’immaginazione, mancanza di rappresentazioni simboliche; questo avviene per mascherare il senso di noia, indifferenza e frustrazione, come viene ampiamente descritto nel libro “Psicodinamica della vita organizzativa” di Quaglino.

Questo stato interiore comporta una scarsa empatia, distacco, indifferenza, rifugio in un mondo esterno inseguendo il tentativo di riempire il vuoto del proprio mondo interiore. Ket de Vries descrive questi soggetti che: “(…) tendono a negare e rifiutare l’esistenza dei sentimenti (…) data la loro capacità di rifiutare sentimenti non sperimentano conflitti intrapsichici, addirittura li ignorano. Il loro comportamento fisico è a volte quello di un robot”.

Se un comportamento simile si presenta all’interno dell’organizzazione, ci si chiede subito l’origine di un tale disturbo. Ci si pone questo interrogativo: è l’individuo a portare la propria patologia o è l’organizzazione che ne favorisce lo sviluppo? Da una parte l’individuo entra con una propria struttura di personalità che può influenzare e modificare il sistema in cui si trova, ma come viene sottolineato anche nel libro di Quaglino, è ampiamente comprovato che sono soprattutto le grandi organizzazioni a esercitare attrazione sugli alessitimici. Alcune organizzazioni infatti promuovono e legittimano determinati comportamenti che possono essere valutati come patologici.

Diversi esemplificazioni possono spiegare meglio le “patologie organizzative”, per esempio: la tendenza alla “negazione dell’individualità” a favore di un conformismo, l’accentuazione della mediocrità, l’esclusione dell’imprevedibilità e i ripetuti tentativi di disincentivare la creatività, le innovazioni, le idee e le intuizioni individuali che potrebbero minare il controllo, la prevedibilità e la gestione degli eventi.

La cultura organizzativa che favorisce l’alessitimia promuove la stagnazione e la mediocrità, infatti viene detto che “Molte organizzazioni sembrano incoraggiare il comportamento alessitimico. Dopo tutto gli alessitimici sembrano essere prevedibili, e le organizzazioni amano la prevedibilità. Alcune organizzazioni non vogliono avere individualisti in giro. (…) non amano persone che disturbano e modificano la routine”.

Kets de Vries parla degli alessitimici anche come analfabeti dei sentimenti, e forse sta proprio in questo tratto il vantaggio per l’organizzazione. Le persone che perdono il contatto con il mondo interno, non riconoscono le proprie emozioni, non essendo così in contatto con i propri sentimenti diventano assai disponibili alle richieste dell’organizzazione.

Come viene anche detto nel libro di Solano, nel capitolo che riguarda il disturbo alessitimico, i soggetti che sono scarsamente a contatto con le proprie emozioni, sono privi della possibilità di utilizzare queste ultime come base per il pensiero e la motivazione, queste persone quindi “non sanno cosa vogliono”. Percepiscono gli eventi come determinati essenzialmente dal caso, dal destino, dal volere di altri e quindi da cause esterne.

Anche Galimberti, in un suo articolo intitolato: “La politica dei sogni: quando il leader promette l’impossibile”, parlando dei leader cita Kets de Vries e riguardo al disturbo alessitimico si chiede se i leader abbiano un anima. Parla di spersonalizzazione e di adattamento alle regole del conformismo, inoltre il leader all’interno dell’organizzazione non ha più solo un’identità personale, ma persegue gli interessi dell’organizzazione. L’alessitimia è definita come “l’incapacità di trovare parole per descrivere i propri sentimenti”, che comporta sterilità emotiva, monotonia delle idee e impoverimento dell’immaginazione. “(…) privi di capacità empatica gli alessitimici, fra i quali si possono annoverare tutti i leader, presentano al di là del recitato entusiasmo, tratti di indifferenza e freddo distacco (…) segnalano gravi difetti di partecipazione emotiva e mancanza di qualità umana nelle relazioni”.

Le organizzazioni promuovono così a situazioni di comando chi è affetto da questo disturbo, “…la povertà della loro realtà interiore eviterà confusioni sulle decisioni da prendere in quella esterna…”, infatti gli alessitimici, date le caratteristiche del loro disturbo, hanno una sorta di iperadattamento alla realtà esterna. Come viene sottolineato nel libro “Psicodinamica della vita organizzativa” è un vantaggio illusorio precludersi un linguaggio dettagliato, ricco e creativo che deriva dalle emozioni. Un altro disturbo che si può riscontrare nella vita organizzativa è la dipendenza dal lavoro.

Come sintomo principale presentano un coinvolgimento in un’attività incessante, l’incapacità di fermarsi, di godere del tempo libero e di oziare. Sono molto efficienti, si sentono i migliori e insostituibili, non sono mai soddisfatti del lavoro svolto, muovono molte e pesanti critiche contro se stessi. Sono sempre in attività, sviluppano un elevato livello di stress, l’unica soddisfazione deriva dal loro successo.

Conseguenze di organizzazioni “patologiche”

Le organizzazioni cercano quindi più o meno consapevolmente di minare l’individualità e la creatività dei singoli individui, vengono favorite le qualità collettive, premiando la mediocrità e spesso la passività dimostrata. Queste persone vengono promosse, riescono a raggiungere livelli alti di carriera proprio grazie al loro basso coinvolgimento, all’assenza di empatia e di relazioni “calde” con gli altri collaboratori.

Come sottolinea anche Kets de Vries il lavorare molto spesso non dà la felicità e non contribuisce alla realizzazione dell’equilibrio tra mondo interno e mondo esterno che è molto importante per l’integrazione personale. Gli atteggiamenti degli individui verso il lavoro sono ambivalenti, spesso sono influenzati da perdita di significato, isolamento, estraneità del sé che possono comportare “uno stato mentale precario e problematico”. Quindi, mentre per alcune persone il lavoro potrà essere sinonimo di realizzazione, riconoscimento e benessere, per altri al contrario evocherà risentimento, frustrazione e fatica. Spesso caratterizzato anche da sentimenti depressivi di impossibilità di cambiare e migliorare la situazione in cui ci si trova.

Nella vita di tutti i giorni…

Nella vita di tutti i giorni, osservando le varie organizzazioni con cui veniamo a contatto, o ascoltando testimonianze di persone che lavorano negli ambiti più diversi si può riscontrare questa sempre maggiore difficoltà dell’individuazione da parte dei soggetti che ne fanno parte.

Quando gli individui entrano a far parte non solo di una struttura ma di un sistema con una propria cultura ed una storia, diventa difficile e faticoso emergere; in numerose situazioni saranno costretti ad arrivare a compromessi, altrimenti potranno dover fronteggiare situazioni spiacevoli caratterizzate da ricatti, raggiri, perché il mondo esterno, che in questo caso è rappresentato dall’organizzazione, si contrappone alla propria identità.

Inoltre, in certi casi ci si trova in circostanze inspiegabili, cambiamenti e comportamenti di difficile comprensione che non aiutano l’individuo nella sua elaborazione e reazione. Il successo del percorso di individuazione è rappresentato dal raggiungimento di un equilibrio funzionale e costruttivo, di cui fanno parte due dimensioni: il rapporto tra individuo e mondo esterno, e dall’altro tra individuo ed il proprio mondo interno.

Conclusioni

Sicuramente approfondendo questo argomento si nota un’accezione pessimistica nello studio delle organizzazioni, che tuttavia si riscontra molto spesso quotidianamente. L’altro interrogativo è se ci si possa veramente imbattere in un’organizzazione alessitimica anche se, come è stato detto, spesso certi leader o soggetti nel proprio lavoro sviluppano comportamenti del tutto simili ai disturbi alessitimici. Non vengono dati molti suggerimenti di intervento se non quello di mettere al primo posto gli individui, le emozioni, le motivazioni e la personalità di ciascun individuo nell’organizzazione. viene evidenziata l’importanza della narrazione come strumento per “pensare” e rielaborare i vissuti all’interno dell’organizzazione.

Bibliografia

  • Kets De Vries Alexithymia in organizational life: The organization man rivisited. Human Relations. Vol 42 (12) Dec 1989.
  • Hirschhorn, Barnett. The psychodynamics of organizations. Labor and social change 1993 (abstract)
  • Quaglino. Psicodinamica della vita organizzativa. Cortina editore 1996.
  • Galimberti. La politica dei sogni: quando il leader promette l’impossibile.
  • Hatch. Teoria dell’organizzazione. Mulino. 1997
  • Galimberti. Dizionario di psicologia. 1999 Garzanti