A volte mi chiedo, al di là di quanto viene affermato, quale sia oggi il valore attribuito alle persone nell’ambito di alcuni ambienti lavorativi.
Possiamo riferirci, come esempio emblematico, alla situazione prevalente nell’ambito dei “call centers”, ma non tanto per riproporre un elenco di denuncia delle cose che non vanno in termini di tutela della salute, quanto perché la ritengo particolarmente esemplificativa di situazioni dannose da svariati punti di vista.
Leggendo le relazioni frutto delle numerose indagini, svolte in Italia ed all’estero, sulle condizioni di tali ambienti di lavoro, sembrerebbe di essere tornati a situazioni d’inizio secolo scorso che ci ricordano il Taylorismo e cioè l’attenzione a tempi e metodi per ottimizzare il processo di lavoro a scapito dell’essere umano che rimane solo uno degli strumenti per fornire in primo luogo un profitto economico dall’attività che svolge.
Le ricerche svolte nei call centers ci parlano di ambienti poco arieggiati, con luminosità difettosa, spesso con scarsa pulizia degli strumenti usati, rumorosità dell’ambiente, isolamento sociale dei lavoratori, tempi del lavoro contratti, imposti e controllati, pause ridotte al minimo, postazioni di lavoro occasionali ed impersonali. Se a questo scenario si aggiunge che il lavoro svolto è parcellizzato, ripetitivo, spesso prescritto nelle modalità di risposta e che l’interlocutore è anonimo ed invisibile, possiamo avere un’idea di quanto in queste condizioni ci si senta isolati, in preda alle proprie “fantasie” e con scarsa possibilità di difendersi.
Ma dove sono finiti gli studi di Elton Mayo e tutto quello che ci ha lasciato la scuola delle relazioni umane? E tutto il lavoro di ricerca/intervento sul campo della psicosociologia in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti ed anche in Italia?
A questo punto credo che meriti soffermarci su una domanda fondamentale:
Che cos’è oggi il lavoro per l’uomo degli anni 2000 nelle società occidentali?
E’ ancora solo un mezzo di sostentamento al quale bisogna sottostare per necessità?
Perché è dalla risposta a questa domanda che possiamo capire la natura profonda dello stress, specialmente se ci riferiamo alla cultura sociale attuale che promuove valori di giovinezza, benessere, voglia di vivere, salute, sport, edonismo.
Non è questa la sede per ripercorrere nel dettaglio l’evoluzione del “concetto di lavoro” nei secoli, ma ciò nonostante qualche cenno può essere utile.
La Bibbia ci presenta il lavoro come parte della maledizione divina che fa seguito al peccato originale; S. Agostino e S. Tommaso lo prescrivevano come precetto religioso; poi, venne sviluppandosi la contrapposizione fra attività manuale ed intellettuale e nel Rinascimento fu difesa la vita attiva rispetto a quella contemplativa: l’ozio condannato all’unanimità! Anche se oggi, Domenico De Masi ha dedicato all’ozio un trattato in quanto risorsa impareggiabile in una società che lascia tempo libero, tempo disponibile per la creatività individuale.
Con il Romanticismo viene evidenziato il rapporto fra lavoro e natura stessa dell’uomo:
Hegel riteneva il lavoro la mediazione fra l’uomo ed il suo mondo, una manifestazione della coscienza in quanto l’uomo viene educato dalle conoscenze necessarie per lavorare, si abitua ad essere occupato, i suoi bisogni possono svilupparsi.
Poi, a causa della progressiva suddivisione del lavoro si produce, non solo, una distinzione fra classi sociali ma anche la progressiva sostituzione della macchina all’uomo, al quale rimangono singole e semplificate abilità/attività che lo rendono dipendente dal contesto sociale .
Secondo Marx, se l’uomo si riappropria del modo di produrre i suoi mezzi di sussistenza (lavoro imprenditoriale?!?) allora il lavoro può essere non solo un mezzo ma diventare il modo di produrre la vita, un modo di vita determinato, un modo di essere. Perché ciò accada il lavoro non deve essere “alienato”, farne merce di scambio col denaro mette in contrasto la personalità del singolo con la condizione di vita imposta dai rapporti sociali ai quali partecipa come oggetto e non più come soggetto.
Oggi in azienda che cosa siamo, soggetti oppure oggetti? In che cosa riusciamo ad esprimere la nostra soggettività? Svolgiamo un lavoro che ci riflette? Ci riconosciamo nei modi in cui operiamo?
KierKegaard sottolineò la stretta connessione del lavoro con la dignità dell’uomo
…il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano…nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio con il lavoro l’uomo si rende libero.
Questa stretta connessione del lavoro con l’esistenza umana che lo nobilita e ne fa un fine oltre che un mezzo è diffusa nella nostra età contemporanea, sarebbero le condizioni sociali in cui viene svolto la causa dello scontento. E’ vero, come poi vedremo, che le persone solitamente sono contente di sentirsi impegnate, richieste, utili, ringraziate per quello che fanno; tanto che, oggi spesso il lavoro diventa un riempitivo e si sviluppa una dipendenza da questo modo di impiegare il proprio tempo. A onor del vero, Nietzsche aveva visto nell’impegno eccessivo nel lavoro
la miglior polizia, che tiene tutti soggiogati ed è in grado di impedire vigorosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza.
Bisognerebbe quindi recuperare lo spazio per una vita più istintiva e…visto che l’ozio è il padre di tutti i vizi….!!!
Quindi, come abbiamo visto, da sempre ci si è interrogati su che cosa sia il lavoro per l’uomo e non credo che troveremo qui la risposta definitiva, ma ciò non ci esime dal porci il problema specialmente quando ci troviamo di fronte a situazioni di profondo disagio psico-sociale.
Ora, possiamo sicuramente affermare che il lavoro, tramite la retribuzione percepita, ci serve per dare una risposta ai nostri bisogni fondamentali e quando possibile anche a quelli superflui, struttura la nostra vita ed esaurisce gran parte del nostro tempo, assorbe la nostra attenzione e richiede energie, può essere occasione mancata di stimoli nuovi, sicuramente condiziona ed esprime il nostro modo di essere in questo mondo.
Ma esaminiamo più in dettaglio i bisogni fondamentali di ciascuno di noi:
- la certezza di avere mezzi per cibo, casa, stabilità dell’ambiente di riferimento,
- la variabilità e cioè il bisogno di ricevere stimoli per il nostro stato d’animo, la possibilità di coltivare la nostra forma fisica ed emotiva,
- il riconoscimento ovverosia il bisogno di contare qualche cosa per qualcuno, di sentirsi “speciali” ed importanti, di essere visti,
- il legame cioè la necessità di sentire un coinvolgimento con qualcuno o qualcosa (una persona, un ideale, un valore, un’ abitudine, un senso di identità)
- la crescita cioè l’esigenza di non sentirci in regresso o fermi ma di ampliare le nostre abilità e conoscenze, di sentirci in sviluppo
- il contributo, ovvero il bisogno di sentire che contribuiamo alla vita degli altri, che partecipiamo.
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per sviluppare una riflessione sull’ambiente di lavoro oggi, non solo nei call center ma in tutta l’azienda a fronte delle peculiarità della gestione organizzativa attuale: incertezza continua, ristrutturazioni convulse, rapporti occasionali ed evanescenti, assenza di riconoscimenti, persone inutilizzate e considerate intercambiabili.
Il nostro ambiente di lavoro è il contesto nel quale svolgiamo le nostre attività e quindi tutti gli elementi che lo determinano sono importanti al fine di dare una risposta gratificante ai bisogni che abbiamo visto.
Se le condizioni ambientali richiedono uno sforzo di adattamento troppo marcato si produce una incapacità di continuare a fronteggiare la situazione e l’organismo, come unità psicofisica entra in una fase di stress che porta a problemi e malattie psicosomatiche. Lo stress è una reazione emozionale a stimoli esterni, una reazione difensiva dell’organismo. Ma questo è un altro capitolo.