Sempre, ciascuno è portato ad interpretare il mondo e le cose basandosi sostanzialmente sulla propria esperienza, su quanto abbiamo vissuto. Lo sforzo è proprio quello di rendere il nostro “sapere” vivo, aperto, pronto ad arricchirsi ed a rinnovarsi, disponibile ad un confronto con la realtà che ci consenta di variare le nostre teorie, così da consentire paradigmi dinamici utili per leggere le situazioni in modo flessibile, attuale.
Che cosa vuol dire un’Etica “concreta”? Concreta in quanto non teorica ma viva, attuale, agita nei comportamenti. Tutti noi siamo protagonisti più o meno consapevoli di che cosa comporti vivere nella realtà sociale, delle tendenze che si manifestano come per es: il ritiro progressivo d’interesse dalla sfera pubblica e ripiegamento sul privato, il consumo di beni e servizi.
Partendo dalla mia esperienza di sociologa/psicologa, (essendo società ed individuo due aspetti della stessa realtà) ho vissuto in prima persona i cambiamenti di alcune realtà aziendali ed anche ciò che questi hanno comportato per le persone che li hanno sperimentati. La direzione del personale si occupava di attività quali:
- rilevazione e valutazione delle attività,
- interventi per valorizzare le persone,
- azioni di formazione e sviluppo dell’organizzazione,
- riflessioni su come affrontare i cambiamenti e loro implicazioni personali, inserimento relativo a nuovi ruoli, nuove attività e di nuove persone,
- conseguenze dell’uso di nuove tecnologie per l’organizzazione del lavoro e per le persone,
- gestione dei conflitti e dei processi comunicativi fra i diversi attori.
L’azienda era vista come una piccola “società”, c’era interesse per decifrarne gli aspetti culturali (P. Gagliardi dell’ISTUD), venivano offerti periodi di formazione piuttosto lunghi ai neoassunti, e quindi ci si preoccupava di non perdere gli investimenti fatti sulle persone a causa di loro dimissioni. Non stiamo parlando di secoli fa ma solo a metà degli anni ’80!
Di conseguenza c’era grande impegno per aiutare l’inserimento nell’ambiente di lavoro, per facilitare l’espressione delle capacità al meglio, per aiutare a capire le aspettative dell’azienda per i ruoli, per focalizzare le motivazioni delle persone.
L’impresa non era considerata un ente benefico ma si era consapevoli che non avrebbe potuto ottenere buoni risultati senza la collaborazione delle persone. La partecipazione si cercava di ottenerla formando al meglio coloro che (dirigenti, capi, coordinatori) gestivano l’attività di altri, progettando procedure operative (mobilità, valutazioni, sistemi premianti) coerenti con quanto si voleva ottenere in termini di crescita professionale e di risultati.
C’era una certa stabilità in primo luogo dell’impiego e poi anche nella composizione dei gruppi di lavoro: i responsabili vigilavano sui propri gruppi, era un orgoglio saper mantenere le persone a lavorare con sè ed ottenere buoni risultati.
Non voglio dare l’illusione di un quadro idilliaco, voglio solo dire che, la competizione e la rivalità pur essendo presente, ci si sforzava di gestirla in modo da evitare che portasse al disordine ed alla paralisi operativa. Possiamo forse convenire che l’impresa, di per sé è un progetto sulla carta: obiettivi da conseguire a vari livelli, economici e sociali, profitti, redditi ed investimenti da realizzare, servizi da offrire al mercato…. ma sostanzialmente è un insieme di persone che devono lavorare in modo quanto più possibile integrato e coerente con le finalità dell’impresa stessa, pena la sua stessa sopravvivenza.
Si diceva: se l’impresa dove lavoro fallisce, io sono senza lavoro…che lasciava intendere che se l’impresa non falliva io il mio lavoro lo mantenevo ed al tempo stesso che il mio modo d’impegnarmi mi avrebbe tutelato da questo rischio perché contribuivo al successo mio e degli altri. Il contributo di ognuno sembrava avere il suo peso relativo.
Ma quali sono state le linee evolutive? Quali sono oggi i motivi per i quali un’impresa fallisce? Che spazio ha la capacità delle persone di lavorare bene rispetto agli interessi economici e finanziari?
Abbiamo assistito ad un aumento crescente dell’instabilità degli assetti organizzativi ed operativi (outsourcing, cessione di rami d’azienda, acquisizioni, fusioni), mancanza d’integrazione delle nuove realtà e confusività di strategie ed obiettivi, impoverimento crescente degli investimenti sul personale, forte disaffezione e senso di estraneità, nuove tipologie dei sistemi premianti in essere, per es: stock option per i manager, che hanno spinto non verso l’amore per l’azienda bensì verso l’interesse esclusivamente personale ed economico.
Sempre più l’interesse è stato procurarsi un guadagno maggiore, per poter star meglio, per assicurasi una “qualità” di vita migliore: più soldi, più potere, più riconoscimento, più visibilità…costi quel che costi, anche cambiare lavoro. Anzi nel curriculum delle persone più cambiamenti ci sono e più vengono percepiti come valore aggiunto.
L’affezione all’azienda, al gruppo di lavoro è stato letto sempre più come l’atteggiamento di persone sostanzialmente impaurite dal cambiamento, incapaci di trovarsi nuove soluzioni di vita, forse non sicure delle proprie competenze, senza volontà di apprendere nuove attività, poco autoassertive, poco aggressive, poco flessibili. Il tempo è diventato sempre più una risorsa da consumare velocemente, uno spazio da stipare secondo criteri produttivi e stabiliti da altri.
Come conciliare in questa nuova situazione, l’integrazione fra l’individuo e l’impresa? E fra le persone e la società? L’individuo usa l’impresa/società per il suo progetto di vita, l’impresa/società e nutrita dalle persone che la compongono. Ogni epoca ha avuto diverse situazioni sociali e queste si sono riflesse su molteplici aspetti: la cultura, i valori vigenti, i problemi dei membri di quella società.
Certamente abbiamo assistito ad un progressivo depauperamento della ricchezza industriale italiana a forza di operazioni guidate da interessi finanziari che ha trasformato il tessuto sociale stesso: scelte sbagliate dei nostri governi? Situazioni veramente inevitabili? Quali concetti possono aiutarci ad esplorare la realtà di oggi? E da essi possiamo chiederci anche quale etica?
In una situazione di globalizzazione e multiculturale, dove i confini sono sempre più sfocati e permeabili e la popolazione è un aggregato di differenze etniche, religiose e di stili di vita e che devono convivere con le proprie identità distinte, l’accettazione del precetto di amare il prossimo può essere ancora considerato l’atto di nascita dell’umanità per la sua convivenza?
Emmanuel Levinas, ritenuto dai più un grande filosofo etico del secolo scorso, ci ha proposto la centralità dell’alterità, come irriducibile diversità dell’Altro che rende cosciente l’io delle proprie responsabilità e favorisce la nascita della soggettività. Per lui il mondo è autonomo rispetto al soggetto, è il soggetto che si crea tramite l’assunzione di responsabilità verso l’alterità del mondo.
Già Kant aveva predetto che sarebbe stato necessario per la specie umana tradurre in pratica regole di reciproca ospitalità. Oggi sembra mancare un centro dotato di reale autorità ed in grado di fissare delle regole per un’alleanza.
Ci sono due valori che sono centrali: la libertà e la sicurezza ma sembrano inconciliabili, d’altra parte l’identità non può essere mai internamente coerente perché è il risultato di un lavoro in perenne divenire. La socializzazione stessa é un processo complesso fra volontà di libertà individuale e bisogno di sicurezza ed approvazione sociale.
Come diceva Bauman, oggi più che parlare di “sradicamento” è più utile pensare ad un continuo levare l’ancora e cercare nuovi ancoraggi, in un’ottica di continuità nella discontinuità. Quando e come decidiamo di “esserci” davvero, di starci perché lo vogliamo noi? Quante volte dobbiamo riprendere questa decisione perché le condizioni sono cambiate? Che cosa ci può aiutare a volerci stare?
A starci bene, con voglia, con entusiasmo, con passione? Certo la paura, l’insicurezza, il sentimento di minaccia e di fragilità, la solitudine, l’indifferenza, l’alienazione, l’impossibilità di controllare quanto ci capita e ci determina…tutto questo non è incoraggiante. Quanto più aumenta il senso d’insicurezza, d’isolamento, di non potersi fidare, di minaccia, di doversi difendere da soli…..quanto più si crea una disponibilità ad accogliere surrogati o soluzioni illusorie offerte per alleviare questa situazione.
E’ continuo il processo d’integrazione di cui si ha bisogno durante l’esistenza, integrazione di significato su noi stessi e su quanto proviamo e viviamo ed il bisogno di sicurezza, di riconoscimento reciproco, di controllo e costruzione di senso nella propria esperienza di vita sono aspetti che trovavano una maggiore risposta in un contesto più stabile di quello attuale.
Nella società odierna, dove più che mai che cosa accade altrove riguarda ed incide sulla vita di tutti, non é più razionale ed utile non tenere conto anche degli altri anche se non ci sono noti, anche se ci sembrano totalmente diversi ed estranei.
Un imperativo etico sono i valori collettivi, istituzioni adeguate, una distribuzione delle ricchezze equilibrata, la salvaguardia dell’ambiente, la gestione del divario sociale; tutto ciò è alla base di uno sviluppo come si dice oggi “sostenibile” perché guarda alle generazioni future preservando qualità e quantità di riserve naturali.
Risale al 2001 l’esplicitazione del concetto di “sviluppo sostenibile” a cura dell’UNESCO (art.1 e 3 della Dichiarazione Universale sulle diversità culturali): la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura. La diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso come crescita economica, ma anche come mezzo per condurre un’esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale.
La mancanza di regole e la difficoltà nel farle rispettare, genera comportamenti illeciti che attivano meccanismi di sviluppo non orientati al bene comune ma a tornaconti economici personali.
Desidero segnalarvi due testi che ho trovato molto interessanti nella ricerca di nuovi concetti che ci aiutino a capire la realtà in cui ci muoviamo e le esigenze etiche che essa presenta: “l’etica in un mondo di consumatori” di Zygmunt Bauman e “Sopravvivere alle crisi” di Jaques Attali.
In ogni caso trovo sempre molto valida l’indicazione di Ghandi di cercare di vivere come vorremmo che il mondo fosse ed anche quella storiellina orientale che forse molti di voi già conoscono:
“Due amici camminano lungo una spiaggia ed una mareggiata ha portato a riva tante stelle marine. Uno dei due si china, ne raccoglie una e la rigetta nel mare. Il compagno gli dice: è inutile, guarda quante ce ne sono che rimarranno qui, non puoi salvarle tutte. Lui risponde: per noi non ci sarà alcun vantaggio ma ti assicuro che per quella stella marina la differenza ci sarà!”.