A volte noi viviamo delle realtà senza neanche renderci conto delle potenzialità e delle caratteristiche di quanto sta accadendo in noi e fuori di noi.
Siamo abituati a pensarci come entità singole e separate ma in realtà il percorso per individuarci e separarci dagli altri è lungo, difficoltoso a volte, l’intimità a se stessi può fare paura e la maggior parte del tempo la passiamo immersi in situazioni collettive e relazionali nelle quali possiamo “confonderci” ed anche “perderci”, specialmente oggi con l’aiuto dei social network di cui si fa un consumo costante.
Vorrei quindi proporvi alcuni concetti chiave per interpretare e leggere aspetti dello sviluppo individuale e dei gruppi.
Dicevamo che siamo portati a distinguere, almeno in teoria, fra individuo e gruppo, singolarità e pluralità; ci sono diversi orientamenti filosofici, psicologici e sociologici sulle priorità da dare all’individuo o ai gruppi sociali di appartenenza:
è l’individuo che crea il sociale con la sua azione oppure è la società che determina gli individui?
Quanto e come possiamo incidere noi come persone sulla società di cui facciamo parte?
Tutti avete a volte vissuto una sensazione d’impotenza: se le cose andassero così…se le persone si comportassero così…che cosa posso fare io?
Ciò che percepiamo e definiamo “reale” è veramente tale? Posso pensare che quanto io vedo sia condivisibile con gli altri e quindi oggettivo ed indipendente dal mio modo di vedere personale? Oppure è una mia creazione, magari condivisa con i miei gruppi di appartenenza?
Personalmente ritengo che pensare individuo e società come due elementi separati sia un modo “oppositivo” d’interpretare una realtà intimamente inscindibile; In altri termini: “sono due facce della stessa medaglia”.
La psicoanalisi ha proposto una lettura dello sviluppo dell’uomo che partendo dalla nascita s’interroga sulla distinzione fra mondo interno di ciascuno e mondo esterno.
Ma quando abbiamo delle percezioni e ci facciamo delle idee ed agiamo di conseguenza… siamo sempre in grado di distinguere quanto proviene da noi da quanto esiste all’esterno di noi?
Che cosa percepiamo in realtà?
La scienza ha poi provato l’influenza ineliminabile che l’osservatore ha sul suo campo di osservazione, in particolare riguardo alle situazioni sociali, quindi non possiamo pensare di osservare in modo neutrale ciò che si presenta, indipendentemente da noi stessi visto che anche quanto osservato non è più lo stesso se è presente un osservatore.
Inizialmente è stata la filosofia a porsi questi interrogativi riguardo all’uomo, al mondo ed al nostro esserci; l’interesse per la percezione e comprensione del nostro rapporto con la realtà, la ricerca dei criteri per validare la creazione personale delle conoscenze, tutto ciò ha portato poi nella seconda metà dell’800 allo sviluppo della psicologia con l’intento della sua affermazione come scienza e con la ricerca nei laboratori dove venivano studiate e misurate le nostre percezioni sensoriali ed il modo di percepire il mondo e le nostre motivazioni.
Studi che hanno dato importanti contributi su alcuni aspetti del nostro funzionamento, come per esempio nella percezione visiva il rapporto fra figura e sfondo: avete mai visto l’immagine che contiene sia una vecchia di profilo che una giovane donna con un nastrino al collo? L’immagine contiene entrambe, e vedere l’una o l’altra dipende dall’organizzazione che si fa degli elementi del campo percettivo contenuti nell’immagine. Generalmente vista l’una non è così immediato riuscire a vedere anche l’altra. Alcune persone non ci riescono proprio perché si fissano sulla prima percezione. Potete immaginare, se ciò avviene per una figura relativamente semplice, quanto sia difficile condividere percezioni diverse di una stessa realtà ben più complessa.
Pensate al diverso racconto di uno stesso film riportato da persone diverse…eppure la storia e gli eventi impressi sulla pellicola sono gli stessi. E ancor più questo si verifica nel flusso della vita e degli eventi vissuti.
Tutto ciò mette in evidenza come noi selezioniamo, senza rendercene neanche conto, alcuni elementi del nostro campo percettivo e li organizziamo insieme dandogli un significato per “vedere” qualche cosa di riconoscibile, che per noi abbia un senso.
Questa selettività non è casuale e neanche consapevole.
Freud , medico neurologo, ha introdotto il concetto d’inconscio per definire tutta un’area dell’esperienza percettiva ed emotiva umana che non arriva alla consapevolezza, o perché non è mai stata consapevole o perché è stata attivamente rimossa, magari anche senza rendersene conto.
Ma il fatto che non sia consapevole non vuol dire che non esista e che non agisca, anzi, più è inconsapevole e più ci può condizionare in modo indisturbato. Un pò come la parte sommersa dell’iceberg che non è visibile ma c’è e può essere anche pericolosa per le navi che passano. (vedi Titanic).
Dobbiamo anche considerare un altro importante contributo concettuale che ci ha lasciato Freud;
in riferimento all’istintualità dell’uomo ha ipotizzato due pulsioni principali: l’istinto di vita e l’istinto di morte che portano a due orientamenti per le nostre azioni….il principio del piacere che c’induce a trattare la realtà per procurarci ciò che ci dà piacere….e il principio di realtà che sarebbe il processo di adattamento alle leggi sociali, ciò che viene rappresentato nell’educazione per integrarci all’ambiente sociale.
Quando l’istintualità non può sfogarsi trovando il suo oggetto del desiderio può venire sublimata spostandosi verso un’altro “oggetto” ed esprimendosi in altro modo.
Tutti avrete sentito parlare di ES, IO, e SUPER IO:
l’ES è la parte istintuale ed inconscia, il SUPER IO è il rappresentante interiorizzato della parte prescrittiva, normativa, autoritaria delle figure genitoriali e poi della società, anch’esso in parte inconscio e strumento per il passaggio del processo di acculturazione.
Sempre Freud, nel suo libro “Totem e Tabù” affermava che i processi psichici si trasmettono e quindi si prolungano da una generazione ad un’altra. Jung ha poi parlato anche di “Inconscio collettivo” per riferirsi a quella parte di noi che è comune a tutti gli esseri umani e che si è formata attraverso le generazioni della specie umana, una sorta di contenitore psichico universale che contiene degli archetipi, ovvero forme e simboli che si manifestano in tutti i popoli e culture.
Lo studio del trans-generazionale, ha evidenziato ripetitive coincidenze di eventi (date e numero di nascite, morti, divorzi, lutti….) tra le generazioni nella storia delle famiglie.
Dobbiamo considerare che ognuno di noi nasce in un contesto relazionale preciso in cui non ha scelto di nascere, così come in relazione al periodo storico, luogo geografico e né tanto meno famiglia. Non tutte le correnti di pensiero però la pensano così, ma l’argomento è troppo vasto e ci manderebbe qui fuori tema.
Consideriamo anche che alla nascita non abbiamo alcuna consapevolezza della distinzione fra me e non me, non c’è alcuna idea di me e dell’esistenza di altri, il nostro io non esiste ancora se non quello corporeo che è in sviluppo e costituisce il substrato bio fisico del nostro Io.
Non c’è linguaggio e quindi non c’è pensiero come comunemente lo intendiamo, cioè quello traducibile in parole e quindi “pensabile” ma esistono lo stesso emozioni e sensazioni anche se non hanno nome e non sono quindi pensabili. C’è un potente sentire senza filtri e senza difese.
Il pensiero ci serve anche a controllare, a razionalizzare. Quindi da piccoli questo è impossibile ed infatti molte emozioni si esprimono attraverso fenomeni fisici. Questo accade anche da adulti quando ci sono manifestazioni dette psicosomatiche. E’ il corpo che parla ed esprime ciò che non siamo in grado di pensare e tanto meno di dirci e di dire.
Ci sono poi modalità tipiche del modo di funzionare della nostra mente di cui dobbiamo tenere conto:
L’identificazione (processo con il quale si elimina la distanza fra me l’altro da me) che può essere introiettiva (prendo da fuori e metto dentro di me), o anche proiettiva (elementi che mi appartengono e li attribuisco all’esterno),
ed ancora la scissione (separo e le parti perdono collegamento), frammentazione (non c’è più unità e collegamento fra più parti). Tutti processi di funzionamento che agiscono inconsciamente ma determinano le nostre percezioni.
Veniamo adesso a parlare di come si sviluppa il nostro IO passando fra identificazioni multiple (genitori, persone significative della nostra vita…):
andando oltre l’idea di una nostra unicità ci rendiamo conto che all’origine siamo frutto di molteplici identificazioni, frammenti vari fra i quali possiamo sviluppare con la crescita e le nostre esperienze personali un’idea di noi più nostra e più vicina ad un nostro sentire più autentico (ciò che viene detto IO).
Il problema della conflittualità interna ha proprio a che vedere con questo processo evolutivo più o meno faticoso in misura al modo di essere dei nostri genitori.
Possiamo allora dire che noi abbiamo a che fare con un gruppo interiorizzato costituito da tutte le persone, o meglio con aspetti di esse, con i quali ci siamo identificati e che quindi sono diventati parte costitutiva del nostro modo di essere, ma non appartengono genuinamente alla nostra natura, piuttosto ci occupano e dobbiamo farci i conti. Così, a causa della modalità proiettiva (attribuzione all’esterno) il gruppo/i di appartenenza all’esterno (amici, colleghi lavoro, club di appartenenza…una organizzazione, la Nazione, ecc) sono inconsciamente contaminati dalle nostre attribuzioni e possono diventare lo specchio del nostro mondo interiore.
In altri termini: sul piano di realtà e condivisione abbiamo il “gruppo di lavoro” organizzato con ruoli e funzioni e compiti/obiettivi da raggiungere ma su un piano emotivo inconscio diventa il teatro dove vivere le nostre scene interiori.
Un gruppo può anche essere letto come un individuo ovvero un organismo con una sua unicità, una sua nascita, storia, un suo io, un suo inconscio, suoi conflitti. Ci sono fenomeni che si manifestano in base ai componenti, al leader ed al suo comportamento, attese, aggressività, idealizzazione dei membri costitutivi del gruppo.
Dinamiche difensive che si esprimono con scissioni sottogruppi e attribuzioni sugli altri all’esterno del gruppo.
Per questi motivi un gruppo può essere analizzato nel suo insieme.
Possiamo anche osservare come un gruppo (anche una comunità quindi) accoglie un nuovo membro/i: lo vuole inserire oppure usarlo per affermare degli equilibri di potere all’interno?!
Quelle che Norbert Elias chiamava “configurazioni dinamiche di processo”.
Potete quindi cogliere da quanto detto quante chiavi interpretative ci sono per capire gli eventi che viviamo ogni giorno nel rapporto con il sociale.
Vorrei terminare per adesso riferendomi al senso di “intrappolamento” dell’individuo nei ruoli che la comunità può offrirgli; Robert D. Hinshelwood diceva:
“ Comportarsi o essere sono due modi di esistere completamente diversi, essere se stessi non può subire controllo o censura quanto il comportarsi: una persona è ciò che è per quanto poco possa piacersi e costringere qualcuno ad essere un certo tipo di persona significa creare profonde confusioni esistenziali che non possono fare altro che minacciare il suo senso di responsabilità”.
Oggi, con la nostra situazione sociale ed il confronto ravvicinato con popoli tanto diversi, ci serve una preparazione che faccia riflettere su tutti questi aspetti.